La festa del papà

whatsapp-image-2018-03-19-at-16-08-11“Credo che si diventi quel che nostro padre ci ha insegnato nei tempi morti, mentre non si preoccupava di educarci”

Questa frase di Umberto Eco, mi offre l’opportunità di aprire il seminario:       “A Me Mi Piace…fare il papà” in programma oggi presso il Centro Polifunzionale A Me Mi Piace andare all’asilo.

Il ruolo paterno si è molto trasformato negli ultimi tempi, conducendo il “papà contemporaneo” a vivere con grande partecipazione e coinvolgimento l’arrivo di un figlio. Questo cambiamento non è stato adeguatamente affiancato da spazi di riflessione e sostegno, a differenza di quanto, ormai, accade per la funzione materna. Per questa ragione ho pensato di ricavare un breve incontro, condotto dal dott. Flavio Incarbone, (Giornalista, Dottore in Psicologia, esperto di nuovi media e relazioni interpersonali) rivolto ai soli papà, capace di arricchire di nuovi spunti il percorso di crescita, rinnovandolo di risorse ed opportunità.

IMG-5231Volendo cogliere uno, tra i tanti spunti di riflessione che toccheremo oggi, partirei dalla considerazione che, se c’è qualcosa di negativo del nostro tempo è l’assenza di modelli. Questa frase è ricorrente nella sfera dell’analisi sociologica e psicologica della genitorialità. Il modello, infatti, ispira, plasma, orienta, guida. Ma se c’è qualcosa di positivo nel nostro tempo è l’assenza di modelli, perché la mancanza di un percorso, di una guida, ci spinge alla ricerca, all’osservazione, all’ascolto e alla ricerca dentro di noi di una strada, originale, autentica, personale. La ricerca autonoma e non orientata è più complicata ma indubbiamente trasformativa.

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Pertanto oggi non vi insegneremo a fare i padri, non cadremo in questa tentazione, perché nessuno è in grado di insegnarlo. Forse i migliori maestri potrebbero essere i vostri figli. Ma mi raccomando non cadete anche voi nella tentazione d’insegnar loro, perché impareranno di più dal vostro amore e da ciò che farete nei tempi morti, quando non vi preoccuperete di educarli.

Perla Boccaccini

img-5230Attenti, curiosi, interessati, silenziosi nella prima parte più teorica e descrittiva. Poi incalzanti, pronti a fare domande, sollevare dubbi, cercare di dare risposte nel momento del confronto. È vero: come dice la dott.ssa Perla Boccaccini, i papà non devono cadere nella tentazione di insegnare ai propri figli, perché questi ultimi apprendono molto più dall’amore spontaneo e scevro della preoccupazione di educarli. Così come è altrettanto vero che una cosa, oggi, questi numerosi padri riuniti per la prima volta tutti insieme l’hanno insegnata a noi: a loro piace fare i papà, lo vogliono, lo desiderano, sono pronti a mettersi in gioco oltre che a giocare – e a giocare con sempre più amore – con i propri bambini.

Perché meno educazione e più amore? Probabilmente educare nel senso più stretto del termine significa da ultimo limitare dall’“esterno” quello che è il potenziale aperto di un bambino. Mentre con l’amore si rinforzano emotivamente – all’“interno” – adattamento, crescita, sicurezza.

Perché l’assenza di modelli può essere presenza di ricerca, sperimentazione e crescita? Perché ogni figlio, così come ogni genitore, è unico di fronte alla vita. Non si può evitare il confronto con se stessi: è necessario cercare di capire chi siamo come persone, come partner, come genitori. Né è possibile delegare questa straordinaria responsabilità, appunto, a un modello…

E anche qui sono ancora loro, i nostri bambini, a venirci incontro: “… i figli, se osservati e ascoltati, sono risorse relazionali straordinarie: ritrovare un padre vero, e non una mera funzione, è un’esperienza di crescita fondamentale per un figlio e ciò rende più fruibile anche il pieno materno, alleggerito finalmente da antiche funzioni vicarianti” (M.Andolfi).

Conoscere i propri limiti e le proprie risorse permette infine di prendere le giuste misure verso una società sempre più tecnologica, digitale, smartphone-centrica, sicuramente più “veloce” ma allo stesso tempo più alienante. Se i papà, anche se in molti casi ancora un po’ troppo analogici, riescono a rappresentare un vero punto di sicurezza per i propri figli – a partire appunto dal proprio amore – questi ultimi possono contare su una solida base per qualsiasi altra difficoltà.

Tutto ciò e tanto altro ancora i presenti al seminario “A Me Mi Piace… fare il papà” lo hanno compreso. Anzi, ce lo hanno fatto capire. Ed è per tale motivo che questo è solo un arrivederci…

PS: un grazie anche a tutte quelle mamme che hanno suggerito o convinto alcuni di loro ad essere qui. Tifare per i propri mariti e viceversa significa infatti fare un gioco di squadra per far crescere bambini felici.

Flavio Incarbone

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Il Valore di una fiaba: Cinderella

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Vi aspettiamo per un pomeriggio da favola in compagnia di Cinderella e Dolce Alice…insegneremo ai bambini che con la dolcezza e la gentilezza si possono fare dei capolavori.

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C’era una volta, in un paese lontano, un gentiluomo vedovo che viveva in una bella casa con la sua unica figlia. Egli donava alla sua adorata bambina qualsiasi cosa ella desiderasse: bei vestiti, un cucciolo, un cavallo….. Tuttavia capiva che la piccola aveva bisogno delle cure di una madre. Così si risposò, scegliendo una donna che aveva due figlie giovani, le quali, egli sperava, sarebbero diventate compagne di giochi della sua bambina. 

La fiaba di “Cenerentola” (Cinderella) è un film del 1950 prodotto da Walt Disney basato sulla fiaba di Charles Perrault. 

La sua morale è il coraggio di restare fedeli ai propri sogni e di credere nel valore della propria vita.

La storia non racconta di un percorso di autoaffermazione, tenace e calcolatore o dell’espressione di un sogno narcisistico, ma descrive una speranza, un’autenticità paziente e coraggiosa esaltata dall’incontro e dal rispecchiamento di un’altra persona (il Principe azzurro), un amore capace di vedere in profondità e comprendere il vero valore della persona. La fiaba parla soprattutto a quei bambini costretti a crescere in situazioni di difficoltà e rifiuto, inseriti in storie di vita che possono sembrare apparentemente normali e ordinate. Suggerisce come essi possano conservare, malgrado tutto, il loro desiderio d’amore, il loro valore e la loro speranza.  Inoltre, essa ci dice che, nonostante tutte le contrarietà, un giorno riusciremo a realizzarci e a essere apprezzati per quello che siamo (E. Drewermann).

Di recente sulla favola si sono accesi nuovi riflettori, grazie alla versione portata nelle sale cinematografiche di tutto il mondo da Kenneth Branagh. Un racconto che delinea una supereroina moderna. Quello che colpisce in questa versione è il nome “Ella” derivato dalla scissione di Cinder-Ella, quasi a sottolineare la rottura avvenuta nella vita della protagonista, contrapposta in due esperienze affettive: la bambina felice e amata da mamma e papà e la ragazza declassata a domestica, schernita dalle sorellastre invidiose e piene d’odio.

L’analisi psicologica del personaggio operata da K. Branagh ci permette di rivivere per la prima volta, la storia di Cinderella con i due genitori ancora in vita, mostrandoci la possibilità che la bambina ha avuto di sperimentare una base sicura, esperienza fondamentale nella vita di ognuno di noi per costruire relazioni interpretazioni autentiche e fiduciose.  

La reazione alla sofferenza e al dolore rappresentano un altro importante spunto di riflessione di questa versione, che si svela nelle due protagoniste: Ella e la Matrigna. Entrambe, infatti, affrontano un dolore conseguente ad una perdita, ma reagiscono alla sofferenza in modo diverso, Ella ci mostra il senso del costrutto psicologico della “resilienza” cercando un autentico rapporto con sé stessa e con gli altri e trovando la forza per andare avanti e realizzare i propri sogni, mentre Lady Tremaine (La Matrigna), brama, invidiosa,  alla costante conquista di qualcosa che non troverà mai (perché celato dentro di sé), da sottrarre alla figliastra. 

Qui ritroviamo quel motivo fondamentale della fiaba che è quello di trasmettere sicurezza nel proprio futuro. Un processo di crescita, d’individuazione capace d’ispirare e infondere fiducia. 

L’ultimo aspetto,  molto vicino a ciò che studio e applico ogni giorno nel mio lavoro psico-educativo,  è rintracciabile nel testamento psicologico contenuto nelle parole della mamma di Cinderella: “sii gentile e coraggiosa” le fa promettere la donna in punto di morte, incastonando la virtù della gentilezza nell’esperienza di vita della figlia. Ma cosa rappresenta la gentilezza nella storia di Ella? Riconduco la gentilezza in quella abilità che noi psicologi chiamiamo “Empatia” una delle dieci Life Skills indicate dall’OMS (1993) come capaci di migliorare la nostra vita, quella capacità di trarre il meglio dai rapporti umani avvicinandoci agli altri, mettendoci nei loro panni. La gentilezza conduce Ella a provare dignità per sé stessa e per gli altri (io ti perdono, pronuncia alla fine della sua storia, rivolgendosi alla Matrigna), mostrandoci come la gentilezza può offrire senso e valore alle nostre vite. 

Perla Boccaccini 

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